LIBRI NARRATIVA STORIE FANTASY STEAMPUNK STYLE

ESTRATTO DI "STORIE DI UN MONDO MECCANICO" DI DANIELE TORRETTA, FANTASY EPICO STEAMPUNK!

Buongiorno a tutti, ecco un estratto dal libro "Storie di un mondo meccanico", disponibile su amazon kindle  in formato ebook !



una storia tra i libri di narrativa e tra le storie fantasy in steampunk style con outfit e stile perfetto per lettori fantasiosi

Le enormi ali meccaniche della Yggr sbattevano con ritmica lentezza tra cielo e mare. La polena di quell'avionave a sette ponti, raffigurante un’aquila protesa in avanti, puntava verso la città di Salamist, dove si sarebbero fermati per mezza giornata o poco più. I passeggeri avrebbero potuto approfittarne per scendere, sgranchirsi le gambe, curiosare per la città e, volendo, fare compere. La frastagliata scia di vapore, emessa da decine di tubi di scarico di vari diametri a poppa dell’avionave, tracciava una lunga cicatrice grigio-biancastra che sfregiava il cielo terso dietro di loro.

I gomiti di Emerik Haraddson erano poggiati sul parapetto in legno della tolda. Si tolse la bombetta leggermente usurata, si asciugò con la mano il velo di sudore che già gli imperlava la fronte stempiata nonostante la brezza costante e tornò a spaziare con lo sguardo, perdendosi nel panorama sotto di lui. Era una vista affascinante, nonostante fosse almeno la quindicesima volta che la osservava negli ultimi giorni. Viaggiare da soli era più noioso di quanto si fosse aspettato.

C’era comunque una novità: avevano finalmente superato il vasto e monotono tratto oceanico. Era bello rivedere la terra dopo tanti giorni passati sopra l’acqua. Là sotto, un migliaio di metri più in basso, il mare spumeggiava e cingeva le coste di un’isola, un modesto lembo di caparbia terra coltivata e abitata in sfregio ai flutti circostanti. A poca distanza dalla costa, dietro lievi colline pietrose, modellate ed erose dal vento dell’oceano, ecco la città. Dall’alto, a essere del tutto sinceri, si vedevano soprattutto le grandi nuvole di vapore che avvolgevano e coprivano l’insediamento. Queste erano il risultato delle varie, brulicanti attività umane in svolgimento, e promettevano l'esistenza di moli sospesi, mercati, giardinetti, botteghe, bische, industrie, osterie, alberghi, case, officine e via discorrendo. Ogni cosa, lì come nel resto del mondo, veniva alimentata tramite l’energia del vapore.

Emerik si accarezzò il biondo pizzetto curato e distolse lo sguardo da quelle bianche nuvole urbane là sotto. I suoi occhi si soffermarono un’ultima volta sul paesaggio sottostante, poi si rivolsero alla nave su cui viaggiava da ormai una settimana. Era una nave passeggeri di costruzione imperiale, relativamente recente, ed era splendida. Per uno come lui, un meccanico, navi volanti come quella erano pura arte. Da contemplare. Da apprezzare. Da usare con reverenziale ammirazione. Si mettessero il cuore in pace pittori e letterati. Il genio, per Emerik, stava tutto nella meccanica.

Quella nave era certamente ascrivibile al genio: il colossale mostro volante di ferro e acciaio su cui viaggiava prendeva la sua energia da quindici caldaie site nei ponti inferiori. Lo scafo, in legno chiaro, era lungo un centinaio di metri. I molti oblò che tempestavano le murate indicavano la presenza di cabine, quindi di passeggeri. Si trattava, in effetti, di un'avionave per trasporto passeggeri, una tra le più grandi in circolazione. L'affollata coperta era sovrastata da un colossale pallone aerostatico ovale, lungo anche più dello scafo cui era agganciato tramite centinaia di tiranti e catene, mantenuto stabile da quattro alettoni posteriori. Alla metà posteriore della murata erano collegate cinque paia di ali, circa una ogni dieci passi. Una grande elica, sotto la poppa, aumentava la capacità propulsiva.

Sopra al chiacchiericcio dei passeggeri, che come lui gironzolavano sul ponte per godersi il panorama, sopra al sibilare lieve del vento, sopra a ogni altro rumore percepibile, l’allenato orecchio di Emerik udiva inconfondibile il costante e vitale scorrere del vapore nei tubi, il rumore metallico dato dalla rotazione dei giganteschi ingranaggi e meccanismi che quel vapore attivava e, ovviamente, il ritmico suono emesso dalle ali semoventi, simili a quelle di un pipistrello gigante: Fhup. Fhup. Fhup. Fhup. Queste oscuravano e svelavano ciclicamente un torrido e implacabile sole estivo che stava calando all'orizzonte, tingendo di rosso, giallo e arancione il cielo quieto.

Nonostante il sole al tramonto e la brezza costante, comunque, il caldo estivo era tremendo. I suoi corti capelli biondi, schiacciati e sudati sotto il cappello scuro, gli davano la sensazione di portare sul capo un unico ammasso di alghe bagnaticce. Si tolse il copricapo e si gustò il sollievo gentilmente concessogli da una folata di vento più decisa delle precedenti.

Una squadra di spalatori di carbone superò Emerik in un turbinio di risate e parole che lui non riuscì a capire, i volti sporchi di fuliggine, i vestiti lerci e sudati. Gente che lavorava duro, quella. Se essere in procinto di arrivare a destinazione significava, per i passeggeri, godere di una vista che differisse dal tanto splendido quanto monotono blu che da giorni fondeva cielo e mare sopra e sotto di loro, per gli spalatori significava anche avere qualche attimo di pausa extra. In fin dei conti non c’era bisogno di tenere i motori a pieno regime, dato che l’aeronave avrebbe fatto scalo di lì a poco per ripartire solo al tramonto. Il viaggiatore osservò curioso quegli uomini grezzi, stanchi ma felici, mentre scherzavano e ridevano tra loro e stappavano un paio di bottiglie di qualcosa che certamente doveva essere molto alcolico.

Un paffuto uomo sulla cinquantina, uniforme bianca e gradi da capitano sul colletto, passeggiava rilassato sul ponte a poca distanza dal meccanico, fumando un grosso sigaro puzzolente. Era seguito da quelli che sembravano essere due giovani allievi ufficiali, con le loro intonse uniformi nere d'ordinanza. Il capitano indicava parti della nave, girandosi per rivolgere intelligibili domande al suo piccolo seguito. Quando uno di questi rispondeva, il capitano annuiva lentamente e diceva qualche parola di apprezzamento mentre procedeva oltre, oppure sul suo volto compariva un'espressione accigliata e scuoteva la testa. Passarono a qualche metro dal meccanico, che poté così intercettare un breve stralcio di conversazione.

«… e da quello al pistone, capitano.»

«Molto bene, Signor Borchezi. Molto bene, vedo che si è applicato con più impegno, stavolta. Ora, vediamo se si ricorda come funziona l'albero rotore che alimenta il movimento delle ali» diceva il capitano con tono gioviale, rivolgendosi a uno dei due giovanotti che lo seguivano.

Una passeggiata di istruzione e ripasso per i giovani ufficiali, constatò Emerik, portando due dita alla bombetta in cenno di rispettoso saluto verso gli ufficiali che passavano a fianco a lui. Questi risposero, poi continuarono con la loro camminata. Distolse l'attenzione dal capitano e tornò a guardare di sotto ripassando mentalmente, anche lui come i giovani allievi, come funzionasse l'albero rotore che qualche ponte sotto di lui alimentava il movimento delle ali. Era un esercizio che lo divertiva, oltre a tenerlo allenato. Poco al mondo gli dava più piacere che un motore in perfetta e armonica funzione. Estrasse la sua pipa, scura e intagliata con motivi geometrici, la caricò, la accese facendosi scudo con la mano contro il vento e aspirò una boccata di quel fumo aromatico e melenso.

Fin da bambino, Emerik era stato affascinato dalla meccanica. La sua prima esperienza con quella materia era stata in occasione di una gitarella su un treno locale, regalo d’infanzia del suo nonno paterno. Il vapore, le caldaie, i pistoni, tutto lo aveva rapito e affascinato. Mentre i suoi coetanei giocavano a nascondino, o a pallone, o con bastoni convertiti a fucili immaginari, lui si divertiva con ingranaggi, molle e manometri. Mentre gli altri imparavano ad andare in bici o a corteggiare le fanciulle, lui costruiva modellini funzionanti di possenti treni e di grandi navi volanti come quella su cui stava viaggiando ora. Essere accettato come apprendista presso la Gilda Meccanica della Libera Università di Bridee significava la realizzazione di quei sogni d'infanzia. Era l’obbiettivo di una vita. Significava che un giorno, probabilmente, sarebbe stato Ingegnere. Un Ingegnere, lui che veniva da un misero villaggio di pastori di capre! Che opportunità meravigliosa, essere parte attiva nella rivoluzione industriale che da quasi due secoli spingeva l'umanità sempre più in alto, sulle ali del vapore. Quando la lettera di risposta dell'ateneo gli era stata recapitata, si era inizialmente rifiutato di aprirla per il timore che contenesse l’ennesimo rifiuto, ma poi si era fatto coraggio ed era quasi svenuto nel leggere il contenuto:

Egregio Signor Haraddson, con la presente siamo lieti di comunicarLe che l’Augusto Consiglio Tecnico della Libera Università di Bridee ha valutato la Sua richiesta di adesione alla Gilda Meccanica e ha riscontrato in Lei le caratteristiche necessarie per farne parte come Apprendista Ingegnere di secondo livello. La invitiamo quindi a presentarsi al molo aereo per imbarcarsi su una lancia dell'aeronave Yggr in data […]”

Data e righe conclusive le aveva lette solo qualche ora più tardi, quando si era ripreso dall’euforia che lo aveva travolto. Anche se aveva dovuto aspettare fino al compimento dei trent’anni per essere accettato, finalmente avrebbe potuto dimostrare chi era. Finalmente la sua fin lì ordinaria vita iniziava ad avere davvero un senso. Finalmente poteva sperare di essere uno dei pochi che si elevavano da banali meccanici di paese a rispettabili membri della Gilda degli Ingegneri, la punta di diamante tra tutti coloro i quali costruivano, inventavano o riparavano cose.

Gli era dispiaciuto lasciare casa sua, ovviamente, ma il futuro lo chiamava, il destino lo attendeva. Vapore e gloria all'orizzonte. La dolorosa separazione era stata messa in preventivo da quando, mesi prima, aveva inviato la sua ennesima candidatura. Così, aveva caricato i suoi vestiti migliori in due grosse valigie rivestite in pelle. Aveva salutato sua madre, il suo migliore amico Martin e buona parte del villaggio in cui aveva vissuto fino a quel momento. Poi, arrivato il giorno indicato nella lettera, si era imbarcato su una lancia di servizio del possente mezzo volante, giunta lì solo per lui. Quanto si era sentito importante, salendo la scaletta che portava a quella navetta. Quanto aveva faticato a trattenere le lacrime emozionate quando aveva visto la sua modesta casa e i suoi amici farsi sempre più piccoli. La nostalgia era stata sua compagna per i primi giorni di viaggio, poi si era lentamente diluita nell’euforica, spasmodica ansia di arrivare a destinazione.

Nonostante i sette giorni come passeggero, ancora non gli pareva vero di essere a bordo di un aerotrasporto. Il villaggio in cui era nato sorgeva a sua volta su un’isola, cosa piuttosto comune nell’arcipelago del Nord. Era molto piccolo, un ammasso di casette attraversato solo da un paio di rotaie che portavano a paesini limitrofi e solo di poco più grandi, ed era tagliato fuori da ogni vera rotta commerciale: senza nemmeno un misero molo aereo era impossibile far atterrare le avionavi, per cui aveva potuto vedere quei grandi mezzi volanti solo col naso all’insù mentre quelli scivolavano tra le nuvole, lontani, grandi volatili in legno e metallo nati dalla mente e dalle mani dell’uomo. Le ali, poi, le poche navi che usavano ancora le ali membranose simili a quelle dei mostri volanti delle antiche leggende, al posto delle più moderne eliche, lo avevano sempre affascinato e fatto sognare. Pezzi di antiquariato, dicevano alcuni. Se era così, rifletté il viaggiatore, l’antiquariato dimostrava di avere molto più stile della modernità.

Si sporse dalla balaustra col busto per cercare di sfiorare con l’indice il punto in cui l’ala si congiungeva alla fiancata in legno della nave, poco sotto il camminamento del ponte. Dovette sporgersi più del previsto per riuscire a toccare quello splendore. Il rischio valeva la ricompensa. Chiuse gli occhi e la punta del suo indice sfiorò il metallo levigato, che ritmicamente si alzava e si abbassava, scostandosi dal suo tocco per tornare subito dopo. Che sensazione meravigliosa. Fredda, ma animata. Vibrante. Si sentì in pace con l'universo per qualche secondo, oltre tutto il vociare e la calura che lo opprimevano. Ascoltò il suono delle ali che fendevano l’aria. Fhup. Fhup. Fhup. Fhup.

Mancò poco che una folata di vento improvvisa gli facesse perdere l’equilibrio, ribaltandolo dalla balaustra e spedendolo centinaia di metri più in basso. I suoi piedi si sollevarono di qualche centimetro dal suolo, l’adrenalina entrò in circolo e un brivido gli corse lungo la schiena, dalla nuca alle natiche. Si aggrappò con forza al parapetto metallico, ritraendosi, come un bambino spaventato si sarebbe aggrappato alle gambe della madre. Poteva essergli sfuggito addirittura un mezzo gridolino, valutò. Davvero poco virile da parte sua.

Tossicchiò imbarazzato, arrossì e si guardò intorno con circospezione per capire se qualcun altro avesse notato il suo quasi-suicidio involontario. A quanto pareva, no. Ma, anche se aveva evitato la figuraccia, ora il panorama gli sembrava molto meno rassicurante di prima. Il pericolo, molto più concreto. Si asciugò di nuovo la fronte, anche se questa volta il sudore era dovuto allo spavento più che alla calura.

Mancavano ancora parecchie ore prima dell’attracco, che potevano essere sfruttate in modo più produttivo di come stesse facendo. Svuotò e pulì la pipa prima di riporla, quindi riprese le scale, tenendosi con forza al corrimano in legno, e scese fino al secondo ponte. L'odore di legno misto a tabacco bruciato che riempiva quegli ambienti lo abbracciò e lo avvolse. Percorse il corridoio in legno, decorato da vasi di fiori su bassi tavolini e da dipinti e immagini di luoghi lontani. Aprì la porta della sua cabina di seconda classe, omaggio dalla Gilda Meccanica come tutto ciò che riguardava quel suo viaggio, e si tuffò nell’accogliente e rilassante penombra. All’interno c’erano una stanza da letto e un piccolo bagno, con mobili essenziali ma ben costruiti.

Guardò Spalla, il piccolo umanoide meccanico che stava costruendo con costanza ormai da mesi e che si era portato con sé alla partenza. Non sarebbe stato tollerabile lasciare un lavoro a metà, così aveva pensato di presentarlo come progetto personale una volta ufficializzato l'ingresso nell'Università e nella sua Gilda. “Troppo ottimista, Emerik” pensò, scuotendo la testa e osservando quel disfunzionale ammasso di molle, meccanismi e ingranaggi vari. L'idea iniziale era creare qualcosa che fosse alimentato a supercarbone che, attraverso specifiche leve e manopole, potesse svolgere semplici compiti preimpostati. La realtà mostrava invece qualcosa in grado di muovere gli arti superiori, ma niente altro. E a scatti, per di più. Il giovane meccanico si sedette sui talloni davanti alla sua creatura, la guardò per qualche istante, sbuffò e girò la manopola di accensione della piccola caldaia. Un lieve ronzio cigolante segnalò l'avvio di migliaia di meccanismi interni. La testa sul busto meccanico fece alcuni scatti: destra, sinistra, destra di nuovo. Le braccia si mossero in alto e in basso di qualche centimetro. Poi tutto si spense in uno schiocco sinistro. Una nuvoletta di vapore uscì da qualche giuntura interna in un mortificante poff.

Guardò a terra, scoraggiato. Si sentì per qualche istante lo zimbello degli ingegneri di tutto il mondo. Era una fortuna che non potessero vederlo. Presto, forse, sarebbe stato un Ingegnere anche lui, e allora perché non era nemmeno in grado di capire da dove iniziare per far funzionare correttamente quella maledetta marionetta zincata? Si alzò e non poté trattenersi dall’assestare una pedata a quel disastro a vapore, il quale rimbalzò sulla parete con un clangore di pentolame.

Il giovane uomo fece qualche passo nervoso verso la porta. Si fermò a metà strada, si tolse il cappello, lo gettò sul letto sfatto e passò una mano tra i corti capelli ancora sudati. Indossò gli occhiali piombati a mascherina, prese la saldatrice ossiacetilenica e gli altri strumenti e tornò indietro altrettanto nervosamente, sbuffando. Si sedette di nuovo davanti a Spalla e riprese a lavorarci, lasciando che la fresca penombra striata di scintille lo inghiottisse mentre la Yggr si apprestava a passare la notte galleggiando mollemente sopra a Salamist, in attesa di poter atterrare.

2


«Ladra!»

La ragazza, magrissima e vestita di stracci scuri, correva. Correva a perdifiato, scapicollandosi per i vicoli della sua piccola cittadina. Ne conosceva i percorsi come le sue tasche, il che costituiva sempre un vantaggio quando era necessario scappare. E lei era costantemente impegnata a scappare. Era uno degli svantaggi del mestiere, ma di riflesso era anche un buon modo per restare in forma. Qualcuno l’avrebbe definita fin troppo in forma, date le ossa sporgenti. Quello, però, era solo il risultato della dieta. O dell’assenza di una dieta.

Athyna era una ladra. Era sempre stata una ladra. Sarebbe sempre stata una ladra, probabilmente, anche se non per scelta. Si sarebbe potuta definire un’opportunista. Sopravviveva, e questo era già un grande risultato in quel buco di culo chiamato Salamist. Era nata circa vent’anni prima e da allora non aveva conosciuto altro che notti all’addiaccio, pulci, furti, fughe, freddo, fame, nuovi furti e nuove fughe. Era certa di avere avuto dei genitori, tutti ne hanno, ma non li ricordava più. Se mai avevano fatto parte della sua vita, erano spariti molti anni prima, quando lei era ancora un fagottino. L’aveva cresciuta la strada. Non che fosse stato un grande problema per lei: essendo cresciuta tra ladri, mendicanti, puttane e truffatori, però, aveva imparato molto presto ad arrangiarsi. Non le dispiaceva essere una ladra. Aveva il suo mucchio di stracci su cui dormire, il cielo come tetto e nessuna regola a imbrigliarla.

Negli anni era diventata una discreta scassinatrice e borseggiatrice e, soprattutto, aveva imparato a passare inosservata. Qualità eccezionalmente utile per qualcuno che deve costantemente nascondersi dalle guardie. Chi non ne era dotato finiva quasi sempre con il soggiornare per periodi variabili nelle amorevoli prigioni cittadine. O peggio, a intrattenere il pubblico riunito in piazza per qualche impiccagione. Nel ruolo dell’impiccato, di norma.

«Fermatela!» ruggì di nuovo un ansimante vocione dietro di lei.

Si inginocchiò senza smettere di correre e scivolò veloce su una pozzanghera di liquame che si era formata sotto il banco di un grasso e puzzolente pescivendolo, il quale cercò di afferrarla goffamente, imprecando.

La sua bocca sottile accennò un sorriso, mentre sgusciando agile tra le pelose braccia dell’omone che le si chiudevano intorno al busto dava una tallonata allo stinco di quest’ultimo per poi riprendere subito la fuga. Lui ululò e imprecò di nuovo, saltellando sulla gamba sana, sorpreso e dolorante. 

«Stupida mocciosa!» le urlò.

«Ti sta bene, panzone!» urlò lei di rimando da dietro la spalla, divertita, senza smettere di correre. Le pietre che componevano l’acciottolato scorrevano veloci e irregolari sotto i suoi piedi. Era scalza, ma la cosa non le creava grossi problemi. Anzi, le permetteva di sentire dove metteva i piedi. Aveva imparato a sue spese che le scarpe potevano essere un problema, nel suo particolare settore. Una volta era rimasta bloccata su un cornicione, incapace di sentire lo spazio sotto i lei, di percepirne gli appigli. Un suo conoscente era stato scoperto nella casa di un mercante proprio a causa del suono delle sue suole sul pavimento di legno. Lo avevano impiccato due giorni dopo. Bisogna fare tesoro dei propri errori, ma anche di quelli altrui. Continuò a correre, sempre seguita a stretto giro da un confuso vociare ringhiato.

Girò a destra in uno dei vicoli ombrosi, lo attraversò veloce come il vento, svoltò a sinistra nella malmessa corte interna di un gruppo disposto a quadrato di case popolari, si lanciò nell’atrio aperto della terza costruzione a sinistra e attese, il fiato corto, il cuore martellante quasi in gola. Attese nascosta nella penombra che le guardie la superassero, perdendola di vista e finendo chissà dove. Tutto come da programma, come aveva fatto altre decine di volte. Il trucco più vecchio del mondo. Pagina uno del manuale del buon ladro, si disse, mentre con le spalle appoggiate al muro umido e scrostato cercava di controllare e calmare il respiro affannoso. Concentrarsi sull'aria che entrava e usciva dal naso – inspira, espira – la portò ad accorgersi di come quel posto puzzasse tremendamente di cavolo bollito. Il fetore era quasi soverchiante, ma lo stomaco vuoto di Athyna brontolò, ricordandole che anche le ladre ogni tanto dovrebbero mangiare. Perfino dello schifoso cavolo bollito, all’occorrenza. Quando si riusciva a rubarne un po’.

Non dovette aspettare molto per sentire il famigliare suono degli stivali delle guardie sull’acciottolato. Dovevano essere almeno tre, giudicò Athyna basandosi sul rumore che emettevano le suole degli inseguitori. Ora le sarebbero passati vicino, solo il muro a dividerli, poi avrebbero proseguito dritti, direzione vaffanculo, perdendola di vista. Pochi secondi dopo, ecco giungere degli affannati vocioni maschili.

Si affacciò, sporgendo solo un magro spicchio di viso dallo spazio vuoto dove un tempo doveva esserci stata la porta d’ingresso. Appoggiò una mano su uno dei cardini rimasti lì come memento alla decadenza e osservò rapidamente la scena che le si presentava in quella corte popolare malmessa: quattro uomini dalle spalle larghe ansimanti nelle loro divise blu scuro, il colore della Guardia cittadina. Uno era piegato in avanti, le mani sulle ginocchia: sembrava stesse per avere un infarto. Athyna lo augurò di cuore a quella maledetta guardia. Erano fermi, formando una specie di cerchio a non più di un paio di metri da lei, ansimanti e sudati. Uno, dall’aria leggermente più anziana e autorevole, sembrava essere il capo. Si guardava intorno scocciato e furioso. Fortunatamente, in quel momento i suoi occhi vagavano in direzione opposta rispetto alla ragazza.

«L’avete persa?»

«No, signore, è andata di là!»

«Sono venuto io da lì, brutto imbecille! Le avrei tagliato la strada se l’aveste spinta di là come da programma. Vi siete scordati della trappola? Dovevate solo seguire gli ordini! Come potete averla persa, maledizione, abbiamo a che fare con una magica stracciona invisibile?»

«Beh, no, ma…»

«Allora non siate ridicoli, cercate negli edifici qui intorno, non può essere altrove! Tu e tu, lì! Voi, guardate là dentro! E datevi una mossa, idioti!»

Athyna sussultò preoccupata. L'avevano avvisata che il bersaglio di quella mattina poteva essere scortato, ma addirittura una trappola? Sarebbe stata una novità sgradevole. Fino a quel momento aveva sempre potuto contare sull’implicita ottusità delle guardie. Aveva quasi pensato che fosse una prerogativa per l’assunzione.

Lei decise che il suo nascondiglio, lì nell’androne, con solo un corridoio cieco e una rampa di scale sbeccate davanti a lei, non era affatto degno di essere chiamato nascondiglio. Con tutta la sua abilità di ladra mosse il primo passo silenzioso verso le scale e la libertà. Ancora una volta, l’assenza di scarpe la rendeva così silenziosa, così sfuggevole…

«Eccola!»

Che diamine! Aveva fatto sì e no mezzo passo. Tanti saluti all’abilità da ladra, alle scarpe e a tutte le altre stronzate. Athyna scattò in avanti, riprese a correre come il vento lanciandosi su per le scale, salendo i gradini a due a due mentre divorava una rampa dopo l’altra, braccata dal suono dei fischietti che trillavano alle sue spalle e dalle urla che rimbombavano echeggiando nel caseggiato. Ora sì che era preoccupata. Non aveva molta voglia di presenziare alla sua impiccagione. Magari un’altra volta. Giunse al quarto e ultimo piano. Fine delle scale. E ora? Guardò rapida nello spazio vuoto al centro della rampa e vide i suo inseguitori correrle dietro. Il rumore degli stivali chiodati rimbalzava tra le pareti e veniva amplificato fino a sembrare un rombo di tamburi. Le erano quasi addosso. Mosse freneticamente gli occhi in cerca di una via di fuga, ma niente. Solo corridoi ciechi. Stavolta era fregata. Riusciva già a sentire il cappio stringersi ruvido contro la pelle del collo.

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